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VICENZA E IL VICENZA

Curva Sud

Il derby Padova-Vicenza, uno dei più antichi del calcio regionale e nazionale, ripropone il tema del rapporto fra la città e la sua principale squadra di calcio. Una relazione, questa, talmente forte, stretta e strutturale da essere diventata scontata, spontanea e, addirittura, oggetto di laica fede e bene ereditario. Non succede solo a Vicenza, ovvio, ne sono affette tutte le città italiane in cui il calcio professionistico si sia intrecciato con la vita e con la storia locale. A Vicenza, però, il fenomeno ha assunto ultimamente una profondità singolare, un tono epico che cozza con una realtà modesta, perfino un valore identitario che, evidentemente, i vicentini non trovano in altri aspetti della vicentinità dopo il declino della cultura, dell’arte, della politica, della finanza locali. Par quasi che, per fregiarsi di essere cittadini di Vicenza, si debba necessariamente essere tifosi del Vicenza.
Il Vicenza (da notare che il nome della città preceduto dall’articolo maschile è sinonimo della squadra biancorossa) è una componente della cultura popolare, fa vendere più copie dei giornali al lunedì, le rubriche più seguite della televisione locale sono quelle dedicate al calcio, impazzano sui social non solo le testate dedicate al pallone ma anche i post di improvvisati e schizofrenici commentatori da bar. I tre mesi di pausa estiva del calcio sono un mortorio.
I vicentini, o meglio: una quota non marginale di loro, spendono bei soldi per il Vicenza, sia volontariamente acquistando abbonamenti e biglietti per lo stadio, sciarpe e magliette e pagando i network televisivi che trasmettono le partite della Beneamata, sia involontariamente: anche i cittadini a cui non interessa nulla il calcio sostengono con le loro tasse il milione all’anno che costa al Comune la manutenzione del Menti oltre alle spese di vigilanza e viabilità in occasione delle gare interne.
Cos’hanno in cambio i vicentini? Pochino, ultimamente. La Serie A manca da più di vent’anni e, in questo lungo lasso di tempo, è andata di male in peggio per il calcio cittadino: retrocessioni e ripescaggi, tanta Serie C, proprietà e presidenze altalenanti e non proprio esemplari. Perfino un fallimento che ha cancellato per sempre dal calcio nazionale una società con una storia di 116 anni, e, dopo il quale, non c’è stato un vicentino che si sia proposto di subentrare e salvare il blasone.
Il posto lasciato vuoto è stato occupato da una società della provincia che si è trasferita a Vicenza, cancellando la propria tradizione calcistica e appropriandosi di una che non le appartiene e di titoli che non ha vinto. Ai vicentini è andata bene così, i tifosi tanto attaccati alla memoria dell’Acivi e del Lanerossi hanno accettato di buon grado questa irrispettosa ibridazione, illusi dallo scampato pericolo della sparizione della loro squadra (che si sarebbe potuta comunque evitare ripartendo da una serie dilettantistica) e dall’avvento di una proprietà solida e imprenditoriale che ha promesso la A in cinque anni. Era un obbiettivo già difficile allora e, nel lustro in cui avrebbe dovuto realizzarsi, si è dimostrato addirittura impensabile tant’è che, un anno prima della scadenza, si è tornati al punto di partenza.
Non è in discussione nè la nuova proprietà nè la società, che, giustamente, fanno quello che credono meglio dei loro soldi. Piuttosto è in discussione quello che pomposamente è chiamato “popolo biancorosso” e che, in realtà, è una minoranza rumorosa di cittadini, poche migliaia, contando anche i tifosi della provincia. Negli ultimi anni questa tifoseria ha creato il mito di se stessa, come entità autonoma rispetto alla squadra perchè, davanti ai rovesci dei biancorossi, ha sentito la necessità di smarcarsi: noi siamo un pubblico da Serie A, voi (società, allenatori, giocatori) da Serie C. Quindi non ci meritate ma noi, che abbiamo la Fede (versione moderna e laica di quella religiosa), vi sosteniamo a prescindere e mandiamo giù tutto, rinviando sempre alla partita o al campionato successivi il momento di fare i conti.
I tifosi vicentini sono il pubblico ideale per una società: mai una contestazione (il massimo è: tirate fuori gli zebedei), mai una presa di posizione, migliaia di abbonamenti e biglietti acquistati per vedere spettacoli calcistici spesso penosi, ingoiati e perdonati insulti e derisioni. Solo tanto sostegno, tanta passione. Una pacchia per un club.
Comportandosi così, i tifosi hanno fatto il bene della loro squadra del cuore? I fatti dicono di no: il forte incitamento in casa e in trasferta non ha fatto vincere campionati nè partite e, nemmeno, ha evitato retrocessioni. Abbozzare sempre, promettere di non andare più allo stadio e poi tornarci già alla prima amichevole precampionato, acquistare migliaia di abbonamenti sulla fiducia ha sfibrato il rapporto società-tifosi. Siamo al punto che le due strade si sono dovute separare: un pubblico autoreferenziale e con molta autostima da una parte e squadra e società dall’altra.

GIANNI POGGI

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