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ED È ARRIVATO IL PRIMO GIORNO DI SCUOLA

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Stamattina finalmente sono tornata a sentire le voci dei bimbi che, con le mamme, raggiungono, la scuola vicina. Vivo in una zona dove i bambini italiani sono sempre meno, mentre cresce il numero di alunni stranieri. Sono accompagnati dalle loro mamme, le giovani donne che portano veli più o meno colorati. Qualche bimba indossa l’abitino nuovo, simile a quello della mamma, ma di un rosa intenso. I maschietti t-shirt e calzoncini sembrano più sciolti. Li saluto, perché tutte le mattine accompagneranno il mio risveglio. E auguro loro buona scuola. Qualcuno risponde timidamente con la manina, altri sorridono, altri mi mandano un sonoro ciao. Improvvisamente mi torna alla mente il mio primo giorno di scuola e un racconto dimenticato nel cassetto. La sua lettura potrà aiutare? Spero di sì!

La luna e le stelle

Amava la sua maestra di un amore incondizionato. Guai a chi si permetteva di parlarne male o di mettere in discussione il suo lavoro.
Era stata lei ad accoglierla il primo giorno di scuola con attenzione e affetto: perché lei, bambina, era impaurita. Non conosceva quel mondo. A dire il vero, a parte pochi giorni di asilo a tre anni, nella scuola delle suore, non era mai uscita da casa e dal tranquillo tran tran della giornata con la mamma.
All’asilo era triste, piangeva sempre, non mangiava e allora la mamma decise che sarebbe restata a casa con lei. Non riusciva ad immaginare un mondo diverso. La mamma che curava lei, la sorella e il fratellino. Il tempo dei vestiti, del dentifricio, del lavare il viso a fondo, dei capelli da spazzolare e acconciare.
Poi la spesa e i giochi. Allora la famiglia era in attesa di entrare nella nuova casa, un appartamento nuovo in un condominio voluto da una cooperativa di impiegati in banca. La scuola sarebbe stata quella del nuovo quartiere e quindi per i primi giorni la mamma l’avrebbe accompagnata a scuola in bici, perché era lontana, molto lontana. Seduta sul porta pacchi posteriore, stringeva i fianchi della mamma per paura di cadere e per questo teneva gli occhi chiusi. Cosa l’avrebbe aspettata? Non voleva andare a scuola, non voleva lasciare l’abbraccio rassicurante della sua casa. Arrivarono nel piazzale della scuola. Con la mamma attese di essere chiamata. Si stava formando un bel gruppo di bambine, tutte in grembiule bianco candido, con fiocco rosa, come era stato richiesto dalla scuola al momento dell’iscrizione. Sembravano felici, lei no. Si salutavano perché si conoscevano. Lei non aveva visto nessuna prima. Sentiva un vuoto allo stomaco, mentre un brivido la attraversava. Con il tempo avrebbe imparato che quello era il segnale che il suo corpo le rimandava per segnalare la paura, l’ansia, la difficoltà ad essere padrona di se stessa. Non voleva entrare, avrebbe voluto piangere, ma non poteva, c’era una dignità da mostrare. La mamma attese l’arrivo della maestra e poi se ne andò perché a casa erano rimasti i fratelli e la lasciò accanto ad una bambina che sembrava intimorita quanto lei. Si presero per mano ed entrarono in un aula luminosa, organizzata in tanti banchi singoli. La maestra accolse le bambine ad una ad una. Consegnava a ciascuna un piccolo timbro, un foglio e poi l’accompagnava al banco.
Il suo timbro aveva disegnata la luna e il suo posto era a sinistra della cattedra, sotto una finestra ampia.
Quel timbro serviva ad identificare le bambine, soprattutto quelle come lei che non sapevano ancora scrivere il proprio nome.
Scoprì molto presto che poche compagne erano come lei, completamente analfabete, e così crebbe il desiderio di scappare.
La maestra le invitò a ricopiare il disegno del timbro e colorarlo con i colori dell’astuccio che aprì per la prima volta, in quanto della scuola le importava ancora poco. Ma ora doveva usare i colori, scegliere quello giusto per la sua luna.
Il primo compito fu portato a termine. Il suo spicchio di luna era un po’ sbilenco, ma la maestra la incoraggiò con un “brava” sincero.
Poi chiese di aggiungere al disegno qualche altro elemento. Lei pensò subito alle stelle che il nonno le mostrava nelle notti d’estate e alle quali attribuiva nomi strani. Così dipinse lo spazio intorno alla luna di blu e lo riempì di puntini gialli. Altro “brava” da parte della maestra, ma subito l’invito ad aggiungere qualcosa d’altro. Allora pensò all’albero di ciliegio davanti alla finestra della cucina di casa. Ma come disegnarlo? Non aveva un modello da copiare come la luna del timbro. Le stelle invece erano semplici da fare, bastava un puntino giallo nel blu. Per l’albero Il ricordo non le bastava. Così rimase ferma, con il foglio davanti e l’astuccio chiuso.
La maestra se ne accorse e si avvicinò: “Qual è il problema della nostra piccola luna?”
“Non so disegnare un albero!”
Immaginava che la maestra la sgridasse e invece le chiese di alzarsi e di avvicinarsi alla finestra. La prese in braccio e la invitò a guardare fuori: era pieno di alberi: “Guarda bene, vedi il tronco, i rami, le foglie…Dai ora prova!”
Il tronco, i rami le foglie, parole che aveva sentito, ma mai collocate nel suo mondo di idee, fatto di mamma, papà, fratelli, nonni, le bambole, le cose di tutti i giorni: il panino, il latte con l’ovomaltina, l’auto del papà con la quale andavano dai nonni.
“Grazie maestra!” E finalmente sorrise.
Per giorni disegnò la luna, le stelle, l’albero. A casa provava a disegnare altro. Aveva visto le sue compagne disegnare case colorate, prati, fiori, ma soprattutto principesse bellissime. Non era poi così difficile e così riempì fogli di principesse. Non le piacevano gli esercizi ripetitivi di aste e quadretti. Pagine intere aperte da cornicette colorate. Le sue compagne erano bravissime, ordinate e le loro pagine erano pulite senza sbavature. Ci impiegò almeno un mese a consegnare una pagina bella e ordinata. Ma alla fine ce la fece.
“Brava, sei molto migliorata.” Ed era migliorato anche il suo rapporto con le compagne, in particolare con la bambina che aveva incontrato il primo giorno, timida come lei, Liliana. E il merito era della maestra che l’aveva presa in braccio e le aveva fatto vedere un albero dalla finestra.

Rosanna Frizzo

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