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Il senso perduto del Partito Democratico

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L’OPINIONE. Di Giuliano Parodi

Una delle illusioni su cui si è cullato il Pd negli ultimi anni riguarda l’idea che, uscito Renzi, le cose si sarebbero aggiustate da sé con un tranquillo ritorno all’antico, tanto che gli stracitati “campi larghi” di Zingaretti/Bettini altro non erano, appunto, che la riedizione dell’Ulivo.
Alle primarie del 14 ottobre 2007, che incoronarono Veltroni segretario del nuovo partito con oltre il 70% delle preferenze, veniva messo ai voti il programma del Lingotto del giugno precedente, che intendeva invece aprire una nuova stagione rispetto alle coalizioni di sinistra . Seppur suffragata da una larga maggioranza, l’idea di Veltroni fu subito combattuta, in modo sotterraneo e subdolo, da nemici formidabili, che presero immediatamente a sabotare il progetto del Pd.
Il fatto che il partito rappresentasse una discontinuità rispetto all’Ulivo era chiaro da bel principio – tanto che Bindi e Letta contestarono apertamente il progetto del Lingotto, presentandosi alle primarie del 14 ottobre – ed è ugualmente chiaro che i punti qualificanti di quel progetto sono stati prima indeboliti e quindi eliminati uno dopo l’altro. Sono almeno quattro i nodi fondamentali che avrebbero dovuto caratterizzare il nuovo corso della sinistra: il soggetto riformista, la vocazione maggioritaria, le primarie, il segretario del partito candidato premier o capo dell’opposizione.

Caduti per fuoco amico (il Prodi 2 sarebbe caduto da lì a poco) i governi di coalizione a sinistra, si guardava ad un partito riformista che fosse al riparo dalle pretese e dai ricatti delle formazioni alleate: all’interno della nuova compagine, come in una camera di compensazione, istanze diverse avrebbero dovuto trovare il modo di convivere, tramite la capacità di formulare un progetto di governo da proporre al paese. Il collante necessario era fornito dallo spirito del riformismo stesso: flessibilità, pragmatismo, gradualismo ma anche capacità di incidere su ingiustizie e ritardi cronici che tenevano e continuano a tenere in ostaggio l’Italia da decenni. Se la coalizione aveva fallito, un partito pensato su base regionale, oltre che aperto alla società, poteva tentare di riqualificare lo spazio della sinistra liberal-democratica.
Non è difficile individuare il punto di non ritorno del riformismo del Pd nella sconfitta al referendum del ’16. È di tutta evidenza che per dar vita a riforme incisive sia necessario possedere uno strumento parlamentare funzionante e appare del pari evidente che il bicameralismo perfetto non possiede tali caratteristiche. Ora, al di là di “benaltrismi” di maniera, della consueta levata di scudi da parte delle vestali della Costituzione, della miseria politica della maggior parte delle compagini parlamentari e dell’ormai arcinota e antipatica spavalderia di Renzi, quella fu un’occasione sprecata che i libri di storia non potranno tacere. Tuttavia a mettere una pietra tombale sul riformismo del Pd furono i numerosi “comitati del no”, che diedero la plastica visione di un partito che non c’era più. Se un atteggiamento di fronda interna poteva essere messo in conto ad una coalizione di governo – dove giochi e giochetti sono la regola – era inammissibile che potesse accadere in un partito che, invece di spaccarsi e prendere atto della sua fine, continuò invece imperterrito a traccheggiare, manifestando così la sua autentica vocazione.

Proponendosi il governo del paese, il Pd doveva necessariamente guardare oltre gli steccati tradizionali della sinistra, da sempre minoritari, attraverso una vocazione maggioritaria che non significava tanto convergere verso il centro, quanto essere capaci di offrire una visione politico-programmatica di sviluppo in grado di convincere la maggioranza degli italiani.
Naturalmente occorreva uscire dalla logica classista del partito di sinistra, ma occorreva anche fare in modo di non entrare nel mare magnum dell’indifferenziato, che conduce poi alla logica che l’importante sia governare sempre e comunque. Non si trattava, dunque, di stingere il rosso nel rosato, ma di inventare un nuovo colore che facesse sentire rappresentata la maggioranza degli elettori; era certamente un compito ambizioso e difficile ma è con questi alti obiettivi che val la pena di intraprendere progetti programmatici nuovi, in grado di dare un senso alla politica.
Immediatamente la vocazione maggioritaria fu letta come una scelta di moderatismo tattico, volto a rastrellare voti al centro ma anche destinata col tempo a snaturare l’anima stessa di un partito di sinistra così che, invece di dar corpo ad una politica riformistica, decisa se non radicale, si pensò che bastasse mischiare un po’ le carte adagiandosi nella politica di gestione, quando al governo, e di opposizione, spesso cieca e strumentale, quando governava la destra. D’altra parte l’accordo interno si faceva via via più problematico e diventava difficile far propria una politica di riforme quando risultavano divisive, per cui era complicato capire quello che si voleva. Pertanto il partito diventava afasico, confondendo l’elettorato fino a disaffezionarlo: come si poteva costruire una maggioranza nel paese se all’interno del partito questa maggioranza non esisteva? Tanto valeva “stigmatizzarla” come autosufficienza irrealistica e titanica, retrocedendo comodamente verso quella politica delle alleanze che procedeva nell’opera di annacquamento ulivista del partito.

Veltroni era stato insediato segretario del partito da un parterre di più di tre milioni di elettori, fra iscritti e simpatizzanti, tramite il sistema delle primarie. La logica sottesa era quella del partito leggero e aperto, un partito in cui gli iscritti rappresentino il suo nucleo centrale ma che guardi anche alla società, senza timore di chiamarla a decidere. In questo modo il sistema correntizio, che pure non è tutto da buttare, veniva annacquato dal voto popolare e nel contempo la tanto celebrata “partecipazione” assumeva tratti concreti. L’intero disegno comportava il varo di un partito dalle salde radici democratiche che, tuttavia, si riconosceva nel leader eletto, garantendogli un seguito leale fino al congresso successivo.
Tutto ciò rimase sulla carta: le primarie, una volta allargate alla scelta dei candidati alle elezioni, sono servite a mettere in pubblico le lotte intestine al punto di vedere gli sconfitti astenersi dal sostegno ai vincitori, favorendo così, talora, la vittoria dei partiti e delle coalizioni avversarie. Ben presto quindi anche le primarie assunsero l’aspetto di un espediente pubblicitario se non di uno specchietto per le allodole, logorandosi rapidamente e vedendo precipitare il numero dei partecipanti. Non mancò, naturalmente, chi dicesse che “era più importante vincere le secondarie che le primarie”, contribuendo così all’affondamento di un sistema che poteva dare risultati importanti e usando quel sarcasmo distruttivo tipico delle realtà mature e declinanti.

Il nuovo statuto del Pd separa la persona del segretario dal candidato premier, non escludendo così, implicitamente, di poter sostenere un candidato premier proposto da altri.
Lo statuto originario prevedeva invece l’esatto contrario, poiché, memori della prima repubblica, quando i presidenti del consiglio erano “re travicelli” nelle mani dei segretari di partito, i Democratici avevano pensato di abbandonare il sistema sovietico per quello britannico, nel quale il capo del partito è automaticamente premier, se vince le elezioni, capo dell’opposizione se le perde.
Ma ormai la strada era segnata e il ritorno al passato comportava anche la ripresa di una gestione notabiliare e correntizia sicché il Pd, data la guerra di corsa interna, è del tutto simile a ciò che caratterizzava la vita faticosa delle coalizioni precedenti: anche questa deriva democraticistica e distruttiva fu spiegata stigmatizzando “ l’uomo solo al comando”, a riprova di un metodo di liquidazione politica di antica scuola.

Questa la parabola del Pd, un partito il cui progetto è stato tenacemente combattuto al suo interno: il partito che doveva coagulare riformismo e progressismo si vede sfilare sia l’uno che l’altro, avviandosi ad un probabile declino, com’è stato per il partito socialista francese. Sullo sfondo riemerge così l’eterno confronto fra riformismo e massimalismo che non ha mai permesso in Italia l’unità della sinistra; spiace quindi che il Partito Democratico, che pareva destinato a riuscirci, sia stato così malamente interpretato e condotto.

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