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UN’ESPERIENZA ERASMUS PER CAPIRE IL DRAMMA DEI RIFUGIATI IN GRECIA

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Chiara Mainente, Montecchiana di Alte Ceccato, sta concludendo il suo percorso universitario in Relazioni Internazionali a Bologna.
Il corso Magistrale che frequenta, “Sviluppo locale-globale”, come si può immaginare, offre mille occasioni di approfondimento oltre che di opportunità, ma lei ha scelto di fare quello che un’insegnante un giorno in classe ha detto: “Prima di entrare i qualche ufficio dell’Unione Europea o di altre agenzie internazionali, andate a vedere sul campo le situazioni”. Così ha fatto e ha scelto un tirocinio Erasmus a Corinto, presso un centro gestito da due ONG italiane e una elvetica e dove si aiutano immigrati in attesa di essere riconosciuti come rifugiati.
“Ho lavorato presso una Community Center molto vicina al campo dove sono accolti questi migranti, ma all’interno di quella struttura non ci sono mai andata. Dopo il Covid le autorità greche ne vietano l’ingresso, così le organizzazioni umanitarie operano all’esterno, in una bella struttura dove si organizzano attività di varia natura per intrattenere persone che altrimenti passerebbero il loro tempo senza far niente in attesa che arrivino i documenti che li dovrebbero liberare e permettere di andare verso il Nord Europa. Si imparano le lingue, si partecipa ad attività che di mese in mese vengono riprogettate o implementate. Così si può seguire il corso di falegnameria, la sport class o la cooking class. Oppure si gioca semplicemente a carte. Per chi arriva quotidianamente in questo luogo di accoglienza c’è la possibilità di ricevere assistenza medica, ma anche sostegno psicologico”.
Chiara viene da una famiglia che ha fatto della solidarietà e dell’aiuto agli altri una regola di vita. Tutti ad Alte ricordano i coniugi Bari: la loro casa per anni è stata punto di riferimento per chi, straniero, arrivava e aveva bisogno un po’ di tutto. Grazie a loro molti Montecchiani inoltre hanno adottato bambini a distanza permettendo loro di studiare, a soprattutto di restare nelle loro case, nelle loro famiglie.
“Mi piacerebbe che nonna Luciana fosse ancora qui perché potrei raccontarle quello che faccio, ma soprattutto potrei confrontarmi con lei, perché non è facile capire l’immigrazione fino a che non ci sei dentro e ancora la mia mente è piena di dubbi”.

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A Corinto lei ha lavorato con persone provenienti dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Bangladesh, ma anche dal Sud Sudan, dal Sudan, Paesi dove è difficile che si possa tornare senza mettere a rischio la propria vita.
“Mi sono rapportata molto con bambini e le loro famiglie, ma ci sono anche tanti ragazzi arrivati da soli e che attendono i documenti. Per chi arriva in Grecia vi è la possibilità di presentare tre domande come rifugiati. Al terzo rifiuto si esce dai campi di accoglienza e si va in luoghi di detenzione in attesa di essere estradati e rimandati nei Paesi di origine, ma la Grecia non è in grado di sostenere le spese di viaggio e quindi sono spinti alla clandestinità e tentano la via balcanica, che loro chiamano “game”. Anche l’ottenimento del riconoscimento di rifugiato non è una soluzione perché secondo la legge greca ogni tre mesi il rifugiato deve tornare in Grecia per le verifiche e quindi per queste povere persone è meglio fare richiesta di rifugio anche nell’ultimo Paese d’approdo. Una vita senza certezze, dunque, con poche speranze, sempre sul filo…”
Chiara è tornata giusto la scorsa settimana, felice di ritrovare la normalità della sua esistenza, la sua famiglia, le piccole gioie quotidiane, quelle che i ragazzi del campo di Corinto forse non vivranno mai ed è con questa differenza che si trova a fare i conti come persona: “Ho incontrato situazioni che subito mi hanno molto coinvolta, ma ho capito che era bene non esserlo. Di fronte a certe situazioni bisogna semplicemente agire, offrire quello che si può, un po’ di pace, e intanto darsi da fare per affrontare concretamente le questioni. Ho capito che non sarò io a cambiare il mondo, ma credo anche che il problema vada affrontato in modo più razionale. Invece prevale una visione distorta, condizionata da una comunicazione sbagliata che genera spesso apprensione e paura.
Lavorare sul campo permette di capire, di cogliere l’enormità del problema a partire dalle tante leggi che lo regolano nei diversi Paesi. Ogni Paese europeo ha le sue mentre sarebbe necessario andare tutti nella stessa direzione”.

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Cooperazione tra Stati e soprattutto maggiore riconoscimento del ruolo delle ONG che con i loro volontari sostituiscono gli Stati nell’aiuto a chi dovrebbe essere accolto solo per il fatto che ne ha bisogno.
“Io sono tornata e ora sto pensando al mio futuro, alla mia laurea, a Corinto ho lasciato ragazzi per il quali il futuro purtroppo non c’è e forse non ci sarà mai perché nati nella parte sbagliata del mondo. Di certo so che solo con la cooperazione tra Stati si può affrontare questo enorme problema. Intanto come giovane ho potuto contribuire anche solo fornendo un’ oasi di pace a chi comunque la sera doveva tornare nel campo profughi, che di accogliente ha poco”.
Chiara, che in modo molto pragmatico non ha voluto affrontare il tema dei centri italiani in Albania, sostenendo che ogni commento sarebbe inutile senza la conoscenza esatta di quello che saranno o diventeranno, auspica invece che ci sia più collaborazione tra Stato e Ong: “Senza queste organizzazioni molte persone bisognose sarebbero lasciate non solo in balia delle onde del mare Mediterraneo, ma anche di organizzazioni pronte a sfruttarli”.

Di seguito una breve intervista a Chiara di Rosanna Frizzo

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