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80° ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE. “ERAVAMO DEI RAGAZZI”

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In occasione degli ottanta anni dalla fine della guerra di Liberazione dal Nazifascismo, per celebrare degnamente il 25 aprile, condivido con i lettori de ilPunto.news, una storia contenuta in poche cartelle dattiloscritte, trovate in casa, riordinando la biblioteca.
Si tratta della storia di due allora giovani studenti montecchiani…

Scrivo queste poche note per onorare la memoria di un amico, il prof. ANTONIO SCALABRIN ; protagonista assieme a me delle vicissitudini qui di seguito narrate.

Il lunedì di Pasqua del 1944 ero aggregato, dopo la mia cattura da parte delle brigate nere fra Durlo e Crespadoro circa un mese prima, ad una specie di scuola allievi ufficiali della R.S.I. con sede nell’asilo di Montecchio Maggiore.
Assieme a me c’erano molti altri giovani, anche paesani, come Scalabrin Antonio, Zenere Lino, Tecchio Igino, Ruffino Luciano e Silvietto il figlio del barbiere.
Si era in libera uscita, essendo giorno di festa (la sagra del lunedì dell’Angelo dopo Pasqua) quando una ronda percorrendo il paese ci impose di ritornare in caserma.
Ivi giunti, ci informarono che dovevamo uscire per circondare la piazza deve si svolgeva la sagra ed effettuare una retata di giovani renitenti alla chiamata alle armi, imposta dal bando di Graziani, che da poco era stato emanato.
Dopo una breve consultazione fra di noi del paese, decidemmo che la migliore cosa da fare era di avvisare i carabinieri, notoriamente avversi al regime imperante, perché informassero i giovani nella piazza del pericolo incombente.
Per comunicare con i carabinieri si incaricò Ruffino Luciano, telefonista ufficiale della caserma.
Quando uscimmo poi per effettuare il rastrellamento, la piazza era completamente deserta e quindi non trovammo alcun giovane.
La cosa non piacque affatto alle autorità che avevano escogitato l’operazione; infatti il giorno dopo ci comunicarono che avevano deciso di spedire l’indomani stesso in Germania per punizione, noi di Montecchio e qualche altro che sospettavano parteggiasse per il nostro gruppo.
Nella notte il primo a scappare fu Silvietto ii figlio del barbiere che, date le sue lunghe gambe, riuscì a saltare la rete metallica che circondava la caserma e a rendersi uccel di bosco.
Il giorno dopo, mercoledì, ci liquidarono le nostre spettanze di paga, ci fornirono, mi sembra, di una decina di pacchetti di sigarette italiane a testa e ci portarono alla stazione spedendoci a Vercelli, nella caserma dalla quale poi si sarebbe partiti per la Germania.
Durante il viaggio, prima in tram da Montecchio a Vicenza e poi con la ferrovia fine a Vercelli, qualcuno riuscì a fuggire ricorrendo a diversi espedienti, specialmente per il fatto che il bando di Graziani si riferiva al richiamo dei giovani. delle leve dal 1922 al 1925 comprese, mentre qualcuno era più vecchio o più giovane o .perlomeno aveva documenti che lo dichiaravano tale; esibendo i documenti comprovanti la loro età, questi erano riusciti ad allontanarsi dopo essersi vestiti in borghese.
Nella notte arrivammo a Vercelli, una caserma immensa che serviva per una intera divisione, mentre di solito tutte le altre potevano contenere un solo reggimento; sulle mura c’erano, ogni dieci metri, delle garitte che ospitavano un nuotatore paracadutista (la peggiore specie di manigoldi sanguinari della R. S. I.) che sparava a vista contro chiunque tentasse di avvicinarsi alle mura per fuggire.
Restammo, mi sembra, tre giorni a Vercelli, dove ci davano da mangiare alla tedesca (la caserma era gestita da loro) cioè una “vera sbobba” verdastra fatta di non so quali verdure, due fette di pane nero, penso che fosse di segala o chissà di che cosa altro e tre sigarette, pure quelle tedesche, che parevano fatte di paglia e non sapevano di niente.
Al terzo giorno ci comunicarono che l’indomani saremmo partiti per la Germania.
Quelli che avevano ancora documenti comprovanti una età diversa da quelle comprese nel bando Graziani, si presentarono all’uscita vestiti in borghese, dichiarando di essere venuti a trovare parenti militari e poterono così uscire e scappare, come per esempio Tecchio Igino; altri come Zenere ed un certo Mozzi riuscirono non so come ad uscire dalla caserma e non si fecero più vedere.
Mi pare che di Montecchio fossimo rimasti solo noi due, Scalabrin Antonio ed io e ci siamo consultati su quello che si dovesse fare.
Per prima cosa abbiamo deciso di andare ad esplorare se fosse stato possibile saltare le mura o trovare una uscita secondaria meno controllata; purtroppo se ci avvicinavamo alle mura i nuotatori paracadutisti minacciavano di spararci contro, mentre altre uscite non se ne trovavano.
Abbiamo pensato allora di esplorare se· fosse stato possibile uscire in qualche modo dal portone principale, che era sorvegliato solo da soldati di leva e quindi meno pericolosi.
Parlando con il capoposto e dandogli tre pacchetti di sigarette italiane a testa (erano molto ricercate, dato che lì non avevano altro che le detestabili sigarette tedesche) riuscimmo a farci promettere che avremmo potuto andare a salutare dei parenti a Vercelli.
Il capoposto disse di tenerci pronti ad uscire quando avesse fatto cenno.
Ci preparammo e restammo nelle vicinanze del portone principale in attesa.
Ad un certo punto il capoposto fece un cenno e ci avviammo; mentre eravamo nell’androne usci l’ufficiale di picchetto che si mise a gridare verso di noi, per cui regredimmo precipitosamente.
Pensavamo che tutto fosse andato storto quando il capoposto si avvicinò dicendo di· stare pronti che ci avrebbe fatto cenno ancora.
Questa volta tutto andò bene e siamo potuti uscire, ma appena fuori i nuotatori paracadutisti,· forse insospettiti dal nostro modo di fare, cominciarono a sparare per fermarci.
Per fortuna al di là della strada c’era una siepe e subito dopo la scarpata di un fiume; per cui correndo a zig-zag saltammo la siepe e mentre scendevamo per la scarpata gridai: “Buttiamoci nel fiume” ma Toni mi rispose che non sapeva nuotare per cui ci mettemmo a correre lungo il greto del fiume, mentre sentivamo gridare e i camion dei tedeschi e dei fascisti uscivano dalla caserma per ricercarci.
La situazione era molto grave perché avevamo visto la caserma tappezzata di manifesti che contenevano sentenze di morte per fucilazione già eseguite in seguito a tentativi di fuga.
Nella corsa abbiamo incontrato una casa, costruita sul greto, che aveva un cunicolo lungo la direzione del fiume; lo imboccammo velocemente ma dopo una ventina di metri lo trovammo sbarrato da una grata per cui siamo dovuti ritornare sui nostri passi.
Ci siamo immersi per un po’ nel fiume per oltrepassare la casa e poi abbiamo ripreso a correre lungo il greto, finché un pescatore ci indicò che c’era la possibilità di attraversare il fiume a guado.
Passammo rapidamente sull’altra sponda e ci siamo messi a correre per allontanarci il più rapidamente possibile dalla caserma.
Ad un certo punto mi accorsi che Toni faceva eccessiva fatica a proseguire nella corsa e gli chiesi la ragione; mi rispose che non sapeva cosa gli fosse successo, ma che si sentiva una gamba pesante e difficoltà nel muoversi.
Ci siamo allora fermati per controllare, accorgendosi che si ara dimenticato di avere nascosto una torta, datagli dalla mamma, entro lo sboffo dei pantaloni alla zuava; la stessa, prima a mollo nell’acqua e successivamente asciugandosi per il calore sviluppato nella corsa, gli aveva impacchettato la gamba impedendogli sempre più i movimenti.
Rimosso l’ostacolo, abbiamo ripreso a scappare e del dopo mi ricordo solo che corremmo tutto il pomeriggio (eravamo fuggiti circa alle tre pomeridiane) nascondendoci nell’acqua delle risaie quando vedevamo o sentivamo i camion che ci cercavano.
Ci siamo fermati una sola volta per bere in una fattoria e poi abbiamo continuato a correre fino a che il buio ci avvolse completamente.
Abbiamo allora cercato un posto dove poter riposarci un po’, dato che eravamo molto stanchi, scegliendo la riva di un fiumiciattolo, nel punto dove c’era un grosso tubo di ferro che lo attraversava, in modo da avere una possibile via di fuga se fosse stato necessario; ci eravamo appena sdraiati per terra che sentimmo (o credemmo di sentire)· un qualche cosa di grosso che strisciava verso di noi; immediatamente siamo passati al di là del fiumiciattolo servendoci del tubo di ferro riprendendo a correre.
Dopo qualche tempo, sentendo che tutto era tranquillo, ci siamo fermati un po’ per guardarci attorno ed abbiamo visto una debole luce verso la quale, dopo aver valutato il pro ed il contro, ci siamo diretti per vedere se fosse stato possibile trovare un rifugio per la notte.
Era una piccola fattoria dove abbiamo trovato una sola vecchietta che ci accolse generosamente, ci diede un po’ da mangiare e ci permise di andare a riposare nel fienile; il fieno non doveva essere stato adoperato da anni perché conteneva una quantità di uccelli morti, ma non aravamo nella condizione di fare gli schizzinosi.
Ci siamo addormentati di un sonno agitato e sempre con i sensi all’erta e i nervi tesi; verso le due e mezza o le tre di notte sentimmo aprire il cancello e al chiarore lunare abbiamo visto un uomo in divisa entrare nel cortile; pensavamo di essere stati scoperti e ci tenevamo pronti a fuggire, ma poiché non succedeva niente ci siamo un po’ calmati riprendendo a dormire.
Alla mattina presto, quando ancora era molto buio ci siamo alzati e la vecchia signora, già in piedi anch’essa, ci disse che l’uomo in divisa visto alla notte era suo figlio guardia di finanza che ritornava dal lavoro.
Salutata la signora, abbiamo proseguito nel buio la nostra marcia di allontanamento da Vercelli e ad un solitario pescatore di rane che con il suo “faraletto” stava acchiappandole abbiamo chiesto come si poteva fare per trovare un nascondiglio.
Il pescatore ci indicò una casa poco lontano dicendo che era molto ospitale per coloro che scappavano dai fascisti e dai tedeschi.
Siamo andati a bussare alla porta di questa casa e infatti abbiamo trovato ospitalità per due o tre giorni; ci hanno dato da mangiare e dormire, fornendoci anche di alcuni capi di vestiario tipo borghese che erano stati in grado di rimediare; erano vestiti e scarpe del tempo di guerra, quindi in condizioni pessime e abbiamo dovuto un po’ arrangiarci per, poterli adattare a noi.
Alle tre di notte del terzo o quarto giorno siamo andati a Mortara per prendere il treno per Milano; mentre eravamo sul treno in attesa di partire sono passati i militi delle brigate nere che si sono rivolti proprio a noi due per chiederci se era nostro il sacco di riso che e era nella rete sopra; per fortuna è intervenuto subito il padrone del riso che ha mostrato i documenti richiesti e i militi se ne sono andati.
A Milano eravamo diretti alla stazione centrale,· ma a Porta Genova siamo dovuti scendere dal treno perché nella notte un bombardamento aveva interrotto le vie di comunicazione; abbiamo cosi attraversato parte di Milano vestiti come straccioni, con un giornale in mano e la sigaretta in bocca; un maggiore della milizia ci ha piantato gli occhi addosso per tutto il tempo che siamo rimasti in vista.
Nella piazza della stazione centrale abbiamo chiesto consiglio ad un ferroviere; ci disse che i tedeschi fermavano tutti quelli che volevano entrare e ci consigliò di approfittare di una apertura esistente nella recinzione per entrare.
Facemmo così ed acquistati i biglietti ci siamo infilati nel treno che era già pronto per partire, ma che invece restò fermo per due ore, sempre dentro la stazione di Milano, perché anche quella linea era stata bombardata come accennato precedentemente; siamo stati per tutto questo tempo con la maniglia della porta in mano pronti a scappare se si fossero presentati tedeschi o fascisti.
Sempre per nostra fortuna non successe nulla e potemmo partire arrivando fino a Montebello dove scendemmo; il carabiniere di servizio alla porta della stazione ci squadrò per bene, ma non disse nulla e cosi ci infilammo nel greto del fiume Guà, dove finalmente ci siamo seduti per mangiare il pane e salame regalatoci gentilmente dalla famiglia che ci aveva ospitato Mortara.
Un poco più tardi, raggiunta la famiglia Biasiolo alla Paglierina, mandammo ad avvisare i nostri parenti che vennero subito a prenderci.
Montecchio Maggiore 8 dicembre 1995
ing. Tornabene Felice

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Una volta tornati a Montecchio, i due giovani si aggregano alle formazioni partigiane che operano in zona. Tornabene diventa il comandante Samuele nella formazione Ismene, Antonio Scalabrin con il nome di Talete si aggrega al Battaglione Valdagno comandato da Gino Soldà.

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Antonio Scalabrin a destra con la fascia della Croce Rossa
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