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I DESTINI COMUNI DI GIULIA E GIULIO

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Martedì 3 dicembre, con la sentenza in primo grado di ergastolo, si è concluso il processo contro Filippo Turetta, l’omicida di Giulia Cecchettin, la ragazza di Vigonovo in provincia di Venezia, uccisa brutalmente dall’ex fidanzato che non accettava di essere lasciato. È stato un processo veloce, senza dibattimenti se non quelli dell’accusa e della difesa, anche perché al processo non sono stati ammessi interventi di parte civile, ovvero non sono stati chiamati a testimoniare e a chiedere risarcimento i comuni di Fossò, dove è avvenuto l’omicidio, di Vigonovo dove abita la famiglia Cecchettin, e di almeno 5 associazioni che si battono contro la violenza nei confronti delle donne. Forse per limitare l’esposizione mediatica!
Il processo è stato comunque semplificato dal fatto che Turetta ha fin da subito ammesso la sua colpevolezza.
Oggi si contesta che la sentenza non considera lo stalking cui è stata sottoposta Giulia e la crudeltà con cui ha agito l’ex fidanzato.
Ma, finché non si potrà accedere agli atti, è inutile chiedersi il perché di questo. La giustizia ha fatto il suo corso. I giudici hanno fissato una pena in linea con i tanti altri casi di omicidio premeditato e quindi punibile con il massimo della pena.
Dopo la sentenza colpiscono le parole del papà di Elena: “Oggi abbiamo perso tutti come società!” È vero perché, dopo il clamore e la mobilitazione seguiti al terribile omicidio, altre 90 donne sono state uccise dai loro partner e spesso con la stessa violenza. Nel giorno stesso della sentenza un’altra donna veniva uccisa per mano del compagno in provincia di Verona.
C’è da essere ben preoccupati perché sembra che nessuna azione di prevenzione sia efficace e risolva il problema dei femminicidi. Nemmeno i braccialetti elettronici imposti ai compagni violenti che hanno dimostrato di funzionare poco o male. Neppure gli inasprimenti delle pene: lo stesso carcere sembra non fermare fidanzati, mariti, padri violenti.
C’ è bisogno di un cambiamento culturale, c’è bisogno di riconoscere la parità di genere, il rispetto dell’essere umano. Bisogna educare all’amore, al rispetto, alla non violenza.
Sulla carta sembra facile, in realtà difficile da realizzare se non si supera quell’idea di possesso che alimenta ogni forma di amore tossico.
Se Giulia potesse dire la sua, dopo il processo, ricorderebbe che non è giusto morire, solo perché ha deciso di chiudere una relazione insopportabile, che ognuno di noi deve essere libero di amare, che l’amore non può obbligare, non può far paura.
Saranno le stesse considerazioni che torturano Filippo Turetta, solo nella sua cella, che sarà anche la sua tomba?
Speriamo di sì, anzi speriamo che il pentimento vero possa indirizzarlo a trovare un modo per trasformare la sua brutalità in benevolenza, in aiuto e attenzione verso gli altri…
C’ è un altro caso giudiziario che ci parla di sconfitta della nostra società, il caso di Giulio Regeni, il ricercatore ucciso brutalmente al Cairo.
I suoi genitori chiedono giustizia che potrebbe arrivare solo se si ottenesse che gli agenti egiziani sospettati di averlo rapito e ucciso fossero estradati e si presentassero in tribunale a Roma.
E invece assistiamo impotenti al dramma di due genitori lacerati dal dolore che comunque imperterriti chiedono verità. Si caricano sulle spalle le sofferenze subite dal figlio che ha avuto una sola colpa: essere desideroso di conoscere e combattere le ingiustizie sociali.
Giulia e Giulio hanno in comune il fatto di aver subito una morte violenta, di essere stati vittime della cattiveria e della follia umana, ma sono anche esempio di che cosa significa essere cresciuti in famiglie vere, fondate sull’amore, sulla reciprocità, sulla solidarietà per cui la morte di una figlia, di un figlio possono trasformarsi in occasione per tentare di cambiare la società.

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